Il ferirsi, il recidere la propria pelle, rappresenta sempre un dolore silenzioso, di chi sente che non può parlare con nessuno (o che sa di non avere nessuno con cui poter parlare). Elementi questi sempre collegati alla vergogna: vergogna per le proprie emozioni, percepite come non legittime, soprattutto in un mondo che chiede a tutti di essere felici, oppure vergogna per il proprio corpo. Condizione frequente in un mondo prestazionale come quello attuale.
Le ferite sono sempre un gesto estremo contro la propria sofferenza, essendo atto oppositivo al dolore, dove la pelle è utilizzata come luogo per asserire la propria identità.
Questo comportamento però apre al turbamento e all’orrore, perché spalanca le porte alla possibilità della morte, attaccando la socialità del corpo.
Bisogna, però, ricordare che la lesione volontaria della pelle, avvicina alla morte, ma non ha l’obiettivo di mettere in pericolo la vita. È un gioco tragico con la morte, imitando l’omicidio di sé. Il dolore resta una sollecitazione non a vivere, ma ad esistere, e questo soprattutto quando la quotidianità è completamente invasa dal turbamento e da emozioni sentite come “ingestibili”.

Il farsi male è un provare meno dolore in un altro luogo che è il corpo.

In situazioni di grave sofferenza, dove il male è pervasivo, si ricorre all’estrema concretezza, ovvero al corpo.
Un giocare con il limite, con la tragedia dell’oltre, che è desiderio di ritrovare il proprio esistere nel mondo. Aggredendo la membrana che separa l’Io dall’Altro.

Sono circuiti carichi di ambivalenza, dove si confondono inestricabilmente dolore, bisogni, desiderio, paura, passione, vitalità. È un ri-generarsi partendo dalle ceneri di Sé. Rimettersi nel mondo. Ri-collocarsi emotivamente.
Sfidando la vita, la persona che si fa del male, conferma paradossalmente la propria vita e il proprio valore personale.
Uscendo dai percorsi comuni, dai percorsi degli altri, la persona apre una sfida a Sé e al mondo.
Crea quindi un’intimità del tutto privata, e qui abita il paradosso del proteggersi facendosi del male.

Ricordando il rischio che corre la vita, si cerca di proteggerla dalla morte e si cerca di sollevarla dalla sofferenza.

Sacrificare una parte di sé per proteggere la totalità del Sé.

Nella ferita si genera identità e quindi un accesso alla propria profondità. Nel tentativo di eliminare il male.
L’identità nasce quindi, in questa tragedia, dalla contrapposizione tra interiorità e corpo, in una dicotomia irrisolvibile. Alla ricerca di un ritorno a controllare se stessi, cercando di non andare a pezzi.

La ferita del corpo è rifugio “transitorio”, in modo da permettere alla persona di ritrovare uno spazio-conforto. Aprendo alla speranza di un diverso stare al mondo. Uscendo dalla solitudine che fa percepire senza senso, e folli, le proprie emozioni, come se fossero incondivisibili e incomunicabili.
Dramma della completa solitudine.
Nella lacerazione della pelle c’è il segnale del bisogno della comunicazione con l’altro.
Ed è anche compito del mondo non solo saperle leggere, ma aprire al dialogo della “traduzione” che è incontro di anime e corpo (intimità e pelle). Facendosi carico della differenza dei linguaggi, che è sempre rispetto delle diversità, e negazione di ogni sterile uniformità.

Francesco Urbani

http://www.radiokafka.it/la-pelle-ferita-la-richiesta-daiuto-nellautolesionismo/

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