Questo articolo è il secondo di una serie di scritti sul sé corporeo in cui cercherò di condividere la mia visione di mente incarnata e di quanto il sé corporeo sia fonte primaria della magia del mentale. In particolare, parlerò di Embodiment(termine introdotto in filosofia della mente per superare il dualismo cartesiano che sosteneva la separazione di una sostanza tangibile, il corpo, rex extensa, da una non-tangibile, la mente, rex cogitans), e di come tale processo, condizione di base del nostro essere-nel-mondo, ci ha portato, nel corso dell’evoluzione, allo sviluppo della coscienza che abbiamo del nostro corpo.

Nel precedente articolo ho cercato di definire che cosa sia la consapevolezza corporea e quanto sia indispensabile approcciarsi ad essa in una cornice neurofenomenologica, che fa dell’esperienza vissuta in prima ed in terza persona il proprio oggetto d’indagine. Ho riportato casi in cui, in seguito ad illusioni multisensoriali o lesioni cerebrali, i soggetti esperiscono in modo differente il proprio corpo. Ad esempio, possono credere che una mano di gomma sia parte del loro corpo oppure affermano che la propria mano non gli appartenga più. Siano i casi sani o patologici, ciò che accomuna noi tutti esseri umani, sono le condizioni che ci aiutano a definire noi stessi come dotati di un certo corpo distinto dagli altri oggetti del mondo. Quando vediamo un oggetto davanti a noi (una penna, una bacchetta, la nostra mano), le caratteristiche percettive, motorie, cognitive ed emotive ad esso correlate ci permettono di esperire quell’oggetto come parte o meno di noi stessi; tale processo, che sta alla base dello sviluppo del sé corporeo, può essere indicato come Embodiment ed affinché abbia luogo, vi sono regole anatomo-funzionali imprescindibili (de Vignemont, 2011).

Nell’illusione della mano di gomma (sulla Rubber Hand Illusion vedi articolo precedente), un’illusione multisensoriale che altera il sé corporeo (una mano finta è percepita come propria), per esempio, è stato dimostrato che se la mano finta non è situata in posizione congruente rispetto alle coordinate egocentriche del soggetto l’illusione non s’instaura (Tsakiris et al., 2007; Tsakiris, 2010). Ugualmente, se la mano di gomma viene rimpiazzata da un oggetto (come un bastoncino di legno) che non assomiglia ad un distretto corporeo (la propria mano in questo caso), i soggetti riportano di non provare quella sensazione di incorporamento classica di questa manipolazione sperimentale (Tsakiris et al, 2008; Armel and Ramachandran, 2003). Nel caso di oggetti che non assomigliano a parti del corpo, inoltre, è stato dimostrato che non sempre all’Embodiment dello strumento (la racchetta per il tennista o il martello per il fabbro) si accompagnano cambiamenti nella consapevolezza corporea (de Vignemont & Farnè, 2010). In questi casi il martello o la racchetta non vengono esperite come parti del proprio corpo; piuttosto il braccio è percepito come esteso, come allungato, e tutto ciò rimane ad un livello tacito, diversamente da quanto accade nella RHI, in cui le sensazioni di Embodiment sono esplicite, vivide, estremamente presenti.

È piuttosto chiaro che l’Embodiment è intimamente legato alla consapevolezza corporea, ed opera a livelli di complessità differenti, più o meno espliciti, il che qualifica tale processo come uno tra i più complessi da trattare nello studio della mente. Recentemente, è stato proposto che l’Embodiment abbia una duplice natura:

  • Percettiva: l’oggetto è incorporato nell’immagine corporea del soggetto (come nell’illusione della mano di gomma, dove l’oggetto visto corrisponde all’immagine mentale che abbiamo della nostra mano).
  • Motoria: l’oggetto è incorporato nello schema corporeo del soggetto (come nel caso dell’uso di strumenti, l’oggetto diventa una estensione corporea).

Gli autori continuano affermando che i due tipi di Embodiment potrebbero seguire regole differenti basate su sistemi anatomo-funzionali distinti, per cui ciò che è richiesto per l’azione differirebbe da ciò che è richiesto per la percezione (de Vignemont & Farnè, 2010). Tuttavia, mantenere distinti tali livelli può essere utile a scorporare, per dirla alla Chalmers, il problema duro ed analizzarlo cautamente per cercare di comprenderlo al meglio. Concepire dunque un Embodiment percettivo distinto da uno motorio non ci aiuta a chiarire la complessità del fenomeno. D’altra parte in letteratura filosofica e scientifica, la neurofenomenologia non è la sola che si occupa di superare tali fallacie.

La teoria della percezione di Gibson (1979) afferma che vediamo gli oggetti in relazione ai loro possibili usi, e ogni percezione di questi richiama un’interazione motoria con essi. Con il termine affordance Gibson cattura questo processo di accoppiamento strutturale che avviene dall’incontro tra noi ed il mondo. Analogamente, le neuroscienze hanno scoperto che la separazione tra sistemi sensoriali e motori (sia nel macaco che nell’uomo) non è così marcata come si è sempre creduto (Matelli et al., 1986; Petrides & Pandya, 1997) e che la chiave di lettura sta nello studio delle aree di integrazione multisensoriale. È stato dimostrato che in presenza di oggetti afferrabili si attivano una serie di neuroni visuo-motori parieto-frontali (detti canonici), che svolgono un ruolo decisivo nella trasformazione dell’informazione visiva correlata ad un oggetto negli atti motori necessari all’interazione con esso. Grazie alle loro caratteristiche, sono stati designati come i neuroni che rispondono alle affordances oggettuali. Percezione ed azione sono quindi due facce della stessa medaglia, inestricabilmente legate l’una all’altra, a cui possiamo approcciarci separatamente solo per comprenderne al meglio la loro grande complessità.

Una soluzione ragionevole è quella di assumere che l’Embodiment sia una condizione necessaria per il darsi della consapevolezza corporea. Gallagher e Zahavi affermano che “è semplicemente un dato di fatto che siamo incarnati, che le nostre azioni e percezioni dipendono dal fatto che siamo dotati di un corpo, e che la cognizione prende forma grazie alla nostra esistenza corporea” (Trad. da: Gallagher & Zahavi, 2008, pp. 131).

Il corpo vissuto (leib), o la rappresentazione implicita del nostro corpo, che ben si sposa con la nozione di schema corporeo ed Embodiment motorio, è il primo principio della nostra esperienza ed ha una natura primariamente sensori-motoria (Husserl, 1936, Merleau-Ponty, 1962, Gallagher, 2005). Ne consegue che ogni esperienza di livello più elevato origini da esso. Merleau-Ponty, chiamato nel 1949 ad insegnare psicologia e pedagogia alla Sorbona di Parigi affermava che:

“la coscienza che ho del mio corpo non è una coscienza di un blocco isolato… i vari domini sensoriali (visivi, tattili, dati dalla sensibilità degli arti, ecc..) che sono coinvolti nella percezione del mio corpo, non mi si presentano come delle regioni assolutamente estranee l’una all’altra” (1968, pp. 88).

E continua:

“Il corpo, come afferma Wallon nella sua eccellente analisi (Les origines du caractère chez l’enfant), è inizialmente introcettivo. Vi è tutta una fase, all’inizio della vita del bambino, durante la quale l’esterocettività… anche se comincia ad esercitarsi, non può farlo, in ogni caso, che in collaborazione con l’introcettività” (1968, pp. 95).

In quest’ottica, la rappresentazione esplicita del nostro corpo, il corpo-oggetto (korper), che ben si sposa con la nozione di immagine corporea e di Embodiment percettivo, non può essere concettualizzata senza la componente sensori-motoria che ne consente l’emergenza (Varela, 1996). Questa riflessione filosofica è stata confermata in un recente studio su una paziente che, dopo la resezione di un tumore vascolare a livello della medulla oblongata, non riferiva più sensazioni somatosensoriali dall’arto superiore destro (una condizione nota come deafferentazione). I ricercatori, dopo avere testato la paziente con un classico compito di tool-use (interazione con oggetti tramite l’uso di una pinza), hanno dimostrato che lo strumento non poteva essere incorporato nello schema corporeo della paziente (come avviene solitamente nei soggetti sani) per la mancanza di sensazioni somatosensoriali e hanno concluso che il senso della propriocezione è una condizione necessaria per il cambiamento dinamico dello schema corporeo (Cardinali et al., 2016).

Nonostante il grande accumulo di conoscenza delle scienze naturali e filosofiche, ancora oggi non possiamo affermare con certezza come si siano evolute l’Embodiment, la consapevolezza corporea e la coscienza più in generale. In questa direzione, proverò a condividere la mia ipotesi sullo sviluppo ontogenetico del sé corporeo, o meglio dell’esperienza cosciente di possedere un corpo. A mio avviso, l’Embodiment è un’esperienza emergente a diversi livelli di complessità piuttosto che composta principalmente da soli due aspetti (motorio e percettivo). Il primo passo che ci permette di sviluppare la consapevolezza corporea è quello di essere incarnati sensori-motoriamente (primo livello); questo stato riflette la nostra esperienza tacita di avere un corpo e comprende schemi corporei orientati all’azione (Maturana & Varela, 1987, Varela, 1999). Parallelamente, una delle più importanti teorie dello sviluppo cognitivo indica tale fase come sensorimotoria dato che, durante questo periodo, le prime manifestazioni di intelligenza dei bambini appaiono dalle attività motorie e dalla percezione sensoriale (Piaget, 1952, 1954, 1964). Secondo l’autore, la crescita intellettuale è un processo di adattamento continuo all’ambiente, che emerge grazie alla presenza di schemi:

“Uno schema è il blocco di base di un comportamento intelligente, un modo per organizzare la conoscenza (…) un insieme di rappresentazioni mentali legate al mondo, che usiamo per comprendere e rispondere alle situazioni” (Trad. da: Manichander et al., 2016, pp. 46).

Mentre il bambino cresce, i suoi schemi diventano più numerosi ed elaborati grazie a due processi chiave: l’assimilazione(utilizzo di uno schema esistente per affrontare un nuovo oggetto o una nuova situazione) e l’accomodamento (lo schema deve essere cambiato per affrontare un nuovo oggetto o una nuova situazione). Alla fine di questo periodo, avendo fatto molta esperienza di interazione con l’ambiente, siamo in grado di rappresentare mentalmente parte della nostra precedente esperienza sensori-motoria, e da questo processo emerge il senso di percepire noi stessi come percettivamente incarnati (secondo livello). Seguendo Piaget, possiamo anche indicare questa fase come forma iniziale di permanenza dell’oggetto (Piaget, 1952; 1954; 1964), che riflette la comprensione, da parte del bambino, che gli oggetti continuano ad esistere anche se non possono essere visti o sentiti. Sono le prime fuoriuscite dall’ hic et nunc, e da quel momento in poi i bambini cominciano a sviluppare simboli per rappresentare eventi o oggetti (anche se stessi), cominciando a muoversi verso la comprensione del mondo attraverso operazioni mentali piuttosto che attraverso azioni semplici (Piaget 1952; 1964). Infine, dalla costante interazione e coesistenza dei livelli precedenti, emerge la capacità complessa di rappresentarci come oggetto della nostra esperienza (terzo livello). Quest’ultimo salto qualitativo corrisponderebbe all’inizio del pensiero simbolico (Piaget, 1952; 1954; 1964), che porterà nel tempo alla presa di coscienza di possedere il nostro corpo (immagine corporea o korper). L’idea è che, per raggiungere il terzo livello (più complesso), bisogna vivere, ritenere ed integrare l’esperienza dei due livelli precedenti. Il livello superiore è sempre un nuovo stato qualitativo, in cui le caratteristiche dei livelli precedenti sono state integrate per consentire l’emergere di una fase più complessa di esperienza (Depraz, Varela & Vermersch, 2003). Lo stesso Piaget (1952, 1954, 1964) afferma che la conoscenza è un processo continuo di costruzione che non progredisce a un tasso costante, ma piuttosto per salti e balzi (Piaget, 1952, 1954, 1964). In questa direzione, ancora una volta sono estremamente illuminanti le parole di Merleau-Ponty (1968, pp. 140-141):

Ciò permette di capire perché l’uso della parola “io” è relativamente tardivo nel bambino. La userà quando avrà preso coscienza della propria prospettiva, distinta dalla prospettiva degli altri (…) L’“io” interviene quando il bambino capisce che tutti i “tu” e i “te” che gli vengono rivolti, sono per lui degli “io”; e cioè, affinché la parola “io”  possa essere usata, bisogna aver coscienza della reciprocità dei punti di vista (…) solo quando capisce che ciascuno di coloro che sono di fronte a lui può a sua volta dire “io” e che ciascuno è per se stesso un “io” e per gli altri un “tu”(…) è quando comprende che lui, a cui tutti danno del tu, può ciononostante dire io, che Il pronome “io” è acquisito in tutto il suo significato.

Assumere che il sé corporeo (e la coscienza in generale) sia il risultato di un complesso processo evoluzionistico oltre che evolutivo, potrebbe permettere agli scienziati e ai filosofi di capire meglio come gli esseri umani hanno sviluppato la capacità di pensare a sé stessi. Ciò implica, inoltre, che dobbiamo riconoscere un processo comune tra le diverse specie per l’emergere della consapevolezza corporea e un punto di riferimento da cui abbiamo cominciato a essere coscientemente differenti.

Nei primati non umani è stato dimostrato che la rappresentazione di un arto può essere estesa grazie all’ esperienza di interazione con oggetti posti nello spazio lontano tramite l’uso di uno strumento (Iriki et al., 1996; Graziano, 1999; Graziano et al., 2000). Degno di nota, inoltre, è uno studio recente che ha descritto meccanismi simili in mammiferi non primati. Un gruppo di ricercatori giapponesi ha testato la RHI nei roditori, sviluppando un nuovo paradigma chiamato illusione della coda di gomma (Wada et al., 2016). Quando le code reali e di gomma erano accarezzate in modo sincrono (condizione in cui s’instaura l’illusione nell’uomo), i topi rispondevano come se le proprie code venissero toccate nel momento in cui le code di gomma venivano afferrate dallo sperimentatore. Le stesse risposte non sono state osservate nella condizione asincrona (controllo). Questi risultati suggeriscono che i topi possano sperimentare, seppur in modo rudimentale, un senso di proprietà delle loro code.

E dunque, gli animali esperiscono la consapevolezza corporea come gli umani? Considerando i tre diversi livelli di complessità discussi sopra, probabilmente affermeremmo che l’esperienza degli esseri umani ha raggiunto lo stato più complesso di questa catena evolutiva. Quindi la mia risposta dovrebbe essere “No”, la consapevolezza corporea è qualitativamente diversa tra gli esseri umani e gli altri animali, soprattutto se questa corrisponde alla fenomenologia positiva del “mio essere presente” che va oltre la semplice esperienza delle proprietà corporee. Tuttavia, se accettiamo questa definizione, dobbiamo affermare che gli animali siano privi di una qualsiasi forma di sé corporeo, contrariamente alle prove sperimentali esistenti che suggeriscono che i mammiferi condividono con noi esseri umani un livello molto rudimentale di consapevolezza corporea. Questo livello corrisponde a un’esperienza sensori-motoria implicita, e tale presupposto potrebbe spiegare perché i primati non umani possono sperimentare l’Embodiment di uno strumento. Allo stesso tempo, possiamo anche supporre che questo livello di base possa svilupparsi in qualcosa di più complesso, come la realizzazione percettiva, altrimenti sarebbe difficile spiegare l’illusione multisensoriale nei topi (illusione della coda di gomma).

Presumibilmente solo gli esseri umani hanno raggiunto l’ultimo livello, che è la capacità di fare di loro stessi l’oggetto della propria esperienza, sempre partendo dallo stesso terreno comune, che è il sistema sensori-motorio.

Ancora una volta, sembra che siamo ben lungi dal trovare delle risposte esaurienti a queste affascinanti domande. Una definizione condivisa del senso di Embodiment e della consapevolezza corporea potrebbe aiutare i ricercatori di diversi campi a definire meglio nuovi protocolli che ne catturino tutti gli aspetti, nel cervello sano e patologico, nonché negli animali. Dobbiamo migliorare i nostri strumenti di indagine e stare attenti alla facile iper-interpretazione; l’incontro multidisciplinare favorisce, in questa luce, il proliferarsi di nuove idee da applicare in ogni campo che si occupi del benessere della persona. Pensiamo solo a quanto sia stato importante, in quest’ultimo ventennio, riporre al centro dell’attenzione il corpo nel migliorare la vita di pazienti neurologici e psichiatrici, dai disturbi di movimento a quelli del linguaggio, o di persone amputate che possono godere di protesi che sentono come parti di sé. I disturbi della corporeità e l’interfaccia con le nuove tecnologie è un tema così rilevante da meritare di essere, oltre che il pensiero conclusivo di questo lavoro, il contenuto di un prossimo articolo.

 

 

Bibliografia

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