Immortalarsi per immolarsi. L’epidemia di morti in cerca dello scatto eterno letta fra le righe di René Girard, filosofo del sacro e della violenza

18 Agosto 2019

Il selficidio come sacrificio per placare l'ira dell'io

Foto tratta dal profilo Instagram angela_nikolau

Fra il 2011 e il 2017 il selfie ha fatto 259 morti. Le vittime si sono immolate nei modo più diversi mentre tentavano di ritrarsi. Caduti da una scarpata, travolti da treni, sorpresi da onde oceaniche, scivolati dalla sommità di palazzi, dilaniati da squali, investiti da auto in corsa mentre si fotografavano sulla scena di un precedente incidente, folgorati dai cavi ad alta tensione, annegati nel tentativo di salvare altri che erano finiti in acqua mentre agitavano il selfie stick alla ricerca della luce giusta. La casistica va dal freak accident, l’incidente improbabile frutto di circostanze imprevedibili, alla più che probabile disgrazia che può capitare a chi sceglie il rischio e le situazioni estreme come consuetudine di vita o mestiere.

E’ probabile che il tentativo di scattare un selfie shoe con le gambe a penzoloni dal portellone di un elicottero che volava sopra Manhattan abbia causato la morte di cinque persone. Nello sporgersi, il selfista ha premuto la leva di emergenza che interrompe il flusso di carburante, e il mezzo è precipitato nell’Hudson. Si è salvato soltanto il pilota. La morte per selfie è una livella: coglie turisti qualunque ma anche influencer che ne hanno fatto un mestiere, come Gigi Wu, la scalatrice solitaria che conquistava cime remote per poi farsi un selfie in bikini in vetta, a beneficio dei follower. E’ caduta in un crepaccio durante un’arrampicata a Taiwan, ed è morta di ipotermia prima che i soccorsi potessero intervenire.


Fra il 2011 e il 2017 sono morte 259 persone mentre scattavano un selfie in situazioni rischiose. L’India domina questa speciale classifica


Una ricerca pubblicata dal Journal of Family Medicine and Primary Care considera in termini epidemiologici la mortalità da selfie, fenomeno complesso legato a un’ossessione globale che si radica più o meno in profondità a seconda dei contesti culturali. Nella classifica della mortalità da selfie, l’India vince per distacco. Dicono sia per la particolare sensibilità per la dimensione visiva o per il bisogno di segnalare il proprio status, un fatto naturale per una società organizzata in caste. Difficile dirlo. Fatto sta che è il primo paese ad avere introdotto delle “no selfie zones” in certe aree pericolose, a testimoniare che la questione ha assunto le dimensioni dell’emergenza sociale. Seguono nella speciale classifica Russia, Stati Uniti e Pakistan.

I ricercatori dicono che i numeri sottostimano il fenomeno. In nessun ordinamento giuridico il selfie viene indicato come causa della morte. In India, il selfie non è citato formalmente in nessun documento come circostanza scatenante o fattore determinante dei tragici eventi. E’ lecito dunque ipotizzare che altri casi di incidenti fatali siano causati da un selfie senza che questo fatto compaia in alcun rapporto delle autorità.

Il fenomeno del selfie ad alto rischio di morte viene di solito inquadrato in due modi. Il primo è quello di una estrema forma di distrazione o attenzione selettiva, come la chiamano gli psicologi, che avviene però in situazioni di estremo rischio. Per definizione il momento dello scatto dell’istantanea di noi stessi assorbe gran parte della nostra attenzione, ma l’esito dell’azione-distrazione dipende dal contesto in cui si propone il gesto. E’ molto diverso farlo sul divano di casa o sulla soglia di uno strapiombo di cinquecento metri senza parapetto. L’osservatore cinico sintetizza così: ve la siete cercata. In questo senso, la morte per selfie è identica a quella causata dai messaggi mandati sullo smartphone mentre si è al volante. La Russia, infatti, ha inaugurato anni fa una serie di campagne per la prevenzione del selfie incosciente con parole d’ordine che ricalcano esattamente quelle che in tutto il mondo vengono proposte contro il text and drive: “Anche un milione di like sui social non valgono quanto la tua vita”. Si fa leva sulla sproporzione fra il valore che il selfie dà e il prezzo di sangue che potrebbe eventualmente esigere.

L’altra chiave classica per interpretare il fenomeno è quella del suicidio. I selfie ad alto rischio vengono definiti anche suicide selfie o selficide, il selficidio, e benché si tratti di un suicidio involontario – dunque non un vero suicidio – l’accostamento linguistico appare in qualche modo pertinente perché nel fatto non si trova traccia di un assassino. E’ un incidente, certo, ma spesso la vittima si è esposta a condizioni di rischio che rendevano l’ eventualità prevedibile. Il tema del suicidio, inoltre, s’accoppia con l’ambivalente dinamica del selfie: la persona che scatta l’immagine è anche quella ritratta, fotografante e fotografato coincidono, circostanza che ha mosso infinite riflessioni socio-culturali nel decennio che si avvia verso la fine. Non è sfuggita nemmeno la somiglianza simbolica del selfie stick con un’arma da fuoco, un fucile puntato però contro chi lo imbraccia.

Si avanza qui una terza ipotesi: la morte per selfie come sacrifico umano rituale. Le decine di vittime innocenti che ogni anno precipitano dall’Horseshoe Bend o affogano a Goa sono il necessario tributo collettivo di sangue imposto dalla divinità più adorata del nostro tempo, il self. Ogni manifestazione del sacro impone sacrifici rituali. Il cristianesimo non sfugge certo alla regola, anzi la sublima con il sacrificio di Cristo, agnello innocente di natura umana e divina che offre se stesso per riscattare i peccati dell’umanità. In ogni forma religiosa si riscontrano meccanismi analoghi, e nel mondo antico e premoderno non è infrequente che il sacrificio dell’animale venga affiancato da quello umano. Il lancio degli innocenti da una rupe o la spinta di fanciulli giù dai gradini della ziggurat ricordano anche visivamente il precipitare di selfisti incauti da scogliere o palazzi. Di recente la polizia di Mumbai ha deciso di pubblicare sui suoi canali social l’impressionante filmato di un ragazzo che cade da un grattacielo per mettere in guardia i cercatori dello scatto perfetto e contenere un trend inquietante.

Ma il selficidio, si potrebbe obiettare, non ha nulla di religioso, anzi avviene sullo sfondo di una secolarizzazione pressoché totale, è un’occorrenza spoglia di elementi sacri, una scia di incidenti dove il caso e la sfortuna, non il rito, la fanno da padrone. I followers di queste pratiche non hanno alcuna divinità da placare.


La morte per selfie non è né incidente né omicidio, ma sacrificio rituale, istituto che la modernità secolarizzata ha tentato di eliminare


René Girard, che ha scritto le pagine definitive sul rapporto fra violenza e sacro, ci tende la mano: “Il sacrificio è stato sempre definito come una mediazione tra un sacrificatore e una divinità. Dato che la divinità non ha alcuna realtà per noi moderni, perlomeno sul piano del sacrificio cruento, è tutta quanta l’istituzione, in fin dei conti, che la lettura tradizionale respinge nell’immaginario”, ha scritto lo storico e filosofo francese nel capolavoro La violenza e il sacro (Adelphi), del 1972.

La civiltà a-religiosa del self rifiuta l’idea stessa del sacrifico per non dover ammettere che le tracce di una mediazione rituale con il divino sono sparse un po’ ovunque. Ma, sostiene Girard, questo rifiuto non è che un’illusione: la violenza ritorna fuori in altre forme, indirizzandosi su altre vittime innocenti. Nella civiltà del narcisismo e dell’introflessione, dove ogni riflesso di trascendenza viene trascinato a forza all’interno del perimetro dell’io, è possibile che questa riserva di violenza rituale prenda la strada paradossale dell’autodistruzione, ché gli altari dell’io-divinizzato non tollerano di rimanere vuoti troppo a lungo. Nell’atto di immortalarsi il selficida finisce per immolarsi.

L’immortalamento è decisivo. Che agiscano sotto la spinta dei like, misura dell’approvazione e della fama, della vanità o dell’ebbrezza del gesto estremo, le vittime del selfie non muoiono per un banale ritratto in spiaggia o in palestra. Vanno alla ricerca dello sfondo irripetibile sul quale giustapporre la propria immagine, s’ingegnano per scovare luoghi e angolazioni nei quali la potenza della natura o la forza dell’abisso urbano si esprimono nei modi più vertiginosi ed emozionanti. In termini romantici, cercano il sublime, il delightful horror di cui parlava Edmund Burke: “Tutto ciò che è in un certo senso terribile o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore”. Lo scatto memorabile, immortale, avviene sul confine labile fra la bellezza e l’orrore, con tutto l’ebbro tormento che questa tensione è in grado di suscitare. Le caption degli skywalker e di altri gruppi di selfisti estremi – influencer dei loro emuli senza seguito – sono parte di un genere letterario codificato, fatto di aforismi finto impegnati e riflessioni da bordo piscina (piena di squali) sulla forza dirompente delle emozioni, la brevità della vita, il senso di infinito. Il genere attinge in un vocabolario denso di sentimenti cosmici e pulsioni estatiche, artifici tutto sommato afferenti a una dimensione religiosa o spiritual but not religious, come dicono i sociologi della religione. Le immagini che si ricercano vengono non a caso definite iconiche.

La russa Angela Nikolau, di professione “extreme model” accompagna le sue temerarie scorribande sui grattacieli, preferibilmente seminuda, con frasi tipo “qual è il vero significato della vita?” o “quant’è lunga una vita umana?”. Risposta: “Beh, dipende. Non contare i giorni e le ore, ma conta le esperienze e ricorda i sentimenti che le accompagnano. Non dimenticare mai questi momenti, perché soltanto i ricordi rimangono con noi per sempre”. L’investimento emotivo su queste sublimi fotografie non potrebbe essere più alto, cosa che fa lievitare il valore di un eventuale sacrificio rituale.

Al centro delle scene perfettamente curate c’è sempre l’io. Non bastano le scogliere a strapiombo, gli oceani in tempesta catturati dai droni, il Grand Canyon visto dall’alto o la telecamera sprofondata negli abissi più pericolosi, non basta la fauna selvaggia colta nelle sue abitudini indisturbate, tutta roba da National Geographic o da Google Immagini. Senza il soggetto umano, senza l’io, il paesaggio non è immortale ma seriale, inautentico. In mancanza del protagonista, non ci sarebbe alcun soggetto da eternare, e perciò nessuna vittima da sacrificare in questa sghemba logica girardiana applicata alla civiltà del selfie.


Negli anni Settanta Tom Wolfe ha raccontato la divinizzazione del self. Oggi il narcisismo esige il suo tributo di sangue


Nel 1976, qualche anno dopo l’uscita dell’opera di Girard, Tom Wolfe ha scritto per il New York magazine un saggio breve poi dilatato e pubblicato in Italia con il titolo Il decennio dell’io (Castelvecchi). In quel testo, il grande giornalista americano parla del “Me decade” come di un Terzo Grande Risveglio che aveva seguito le prime due ondate religiose che hanno caratterizzato la storia americana, la prima nella metà del Diciottesimo secolo e la seconda attorno agli anni Venti del secolo successivo. Al contrario dei primi due periodi, il Terzo Risveglio è cresciuto “sui movimenti terapeutici oltre che sui movimenti apertamente religiosi, dagli hippie agli studenti della parapsicologia e gli ufologi, passando per i carismatici cristiani”. Anticipando e preparando il lavoro degli storici, Wolfe ha colto in presa diretta lo spostamento della sensibilità religiosa dalle immensità dell’Altro ai capricci dell’io. “I vari movimenti della presente corrente religiosa tentano di realizzare praticamente l’opposto” di quelli che li hanno preceduti, scriveva. “Iniziano con: ‘parliamo di me’. Iniziano con il più delizioso degli sguardi ripiegati su di sé; iniziano, insomma, con un considerevole narcisismo”. Questo fervore ha il “più potente, più sacro ritmo di tutti, il suo tempo è scandito da…io…io…io…io…”.

L’articolazione religiosa del narcisismo è la chiave wolfiana per spiegare il decennio dell’autodeificazione, e nel millennio successivo la divinità del Terzo Risveglio da lui evocata esige un sacrifico rituale che non era stato messo in preventivo. Nella sua dimensione simbolica, il selficidio non è incidente né omicidio: è un involontario tributo umano per placare la più capricciosa delle divinità.

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