Adolescenza: Essere adolescenti ai tempi della crisi fa paura; una paura di un futuro sconosciuto, difficile da pensare se non addirittura impossibile.

GLI ADOLESCENTI DOVREBBERO ESSERE OSSERVATI COME QUADRI PREZIOSI IN UN MUSEO: NON TROPPO VICINO DA TRALASCIARNE LA FIGURA D’INSIEME, NON TROPPO LONTANO DA PERDERE DI VISTA I DETTAGLI CHE RENDONO OGNUNO D
I LORO UNICO E IRRIPETIBILE. IN ENTRAMBI I CASI NE PERDEREMMO LA VERA BELLEZZA E IL VERO VALORE.

Elena, non sto bene. Ho l’adolescenza”.  Uno dei miei primi colloqui allo sportello di ascolto di una scuola media è iniziato con questa frase. “Ho l’adolescenza” mi ha detto Giada, 13 anni, proprio come se stesse parlando di una malattia, di un virus, di qualcosa che senza accorgersene ti investe, ti rifila dei sintomi e ti fa sentire a pezzi. “Passerà col tempo, speriamo!” ha poi detto Giada. Le ho risposto che sì, passerà, ma non perché esiste una medicina e neanche perché il tempo “guarisce tutte le ferite”, come dice uno dei più triti luoghi comuni. Passerà perché la vita è fatta di fasi che, come stagioni, preparano il terreno a quella successiva e permettono a nuovi frutti di maturare e a nuovi fiori di sbocciare.

Ho sempre pensato che gli adolescenti fossero strani, contorti, francamente un po’ bizzarri. E, al tempo stesso, enigmatici, poliedrici, affascinanti; insomma, una sfida. Forse per questo ho deciso di lavorare con loro sin da prima di laurearmi. E, lavorando con loro, ascoltando le loro domande, accogliendo le loro provocazioni e i loro dubbi, dentro e fuori le mura scolastiche, ho scoperto che in realtà gli adolescenti sono davvero strani, contorti e francamente un po’ bizzarri ma che soprattutto sono spaventati a morte.

Essere adolescenti ai tempi della crisi mondiale, fa davvero molta paura; una paura di un futuro lontano, sconosciuto, nebuloso, difficile da pensare se non addirittura impossibile. Le contraddizioni del mondo in cui viviamo, l’ambivalenza comunicativa dei grandi personaggi costruiti dai media, l’ambiguità della società liquida di cui parla Bauman, rendono impalpabili, fragili, liquidi anche i valori che la generazione degli adulti deve (o dovrebbe) trasmettere alle generazioni successive.

Essere adulti-educatori di adolescenti nel 2013 significa sentirsi fare dai ragazzi e dalle ragazze domande scomode come “perché devo studiare se non lavora neanche chi è laureato?” oppure “perché devo rispettare le regole se i vincenti sono proprio quelli che le hanno infrante?”. Domande irritanti, provocatorie e maledettamente legittime, necessarie, ragionevoli. Domande che ci parlano in maniera inequivocabile del senso di inadeguatezza degli adolescenti di oggi, “nativi digitali” multitasking come i loro smartphone ma fragili come carta velina.

Leggendo i dati dell’ Indagine Conoscitiva sulla condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza in Italia condotta nel 2012 da Telefono Azzurro e Eurispes, emerge con chiarezza la sensazione di difficoltà vissuta dai giovani e giovanissimi, non più spettatori dietro le quinte della crisi economica vissuta dalle famiglie italiane ma ormai attori coinvolti dal dramma.

Infatti, se nel 2010 un adolescente su tre riteneva che la crisi economica avesse colpito la propria famiglia (29%), oggi è uno su due (50,1%) a dichiararsi consapevole della difficile situazione economica vissuta a livello familiare. Inoltre, il 30,5% dei ragazzi si dice spesso o a volte preso dalla preoccupazione per i problemi di lavoro dei propri genitori. Anche la paura di non trovare lavoro da adulti è largamente diffusa, tanto che solo il 18,2% degli adolescenti dice di non averla.

La fotografia scattata da questi dati ritrae un adolescente deluso dal presente e spaventato, se non addirittura terrorizzato o peggio ancora disilluso e avvilito, da ciò che lo aspetta, da quel futuro, cioè, ciò che Miguel Benasayag e Ghérard Schmit definiscono, nel loro saggio “L’epoca delle passioni tristi” un “futuro-minaccia”: non più il “futuro-promessa” che hanno vissuto i loro genitori ai tempi della loro adolescenza, in cui la fatica, l’impegno, i sacrifici erano intrisi di speranza di essere un giorno ripagati da successo, soddisfazioni, possibilità.

D’altronde, anche essere adulti-educatori nel 2013 fa paura, perché nemmeno per noi le risposte sul futuro non sono così chiare e vincenti. Ma soprattutto perché sta a noi il compito oneroso di essere per gli adolescenti “profeti” del loro futuro e della loro crescita, visionari delle loro possibilità, sognatori della loro strada quando le loro facoltà creative e motivazionali sono intorpidite, prosciugate, paralizzate. Come sottolinea Gustavo Pietropolli Charmet, aiutare gli adolescenti significa sostenerli nel credere che “in un tempo chiamato futuro” sarà possibile anche per loro la realizzazione del loro progetto, del loro valore, del loro talento.

Forse così l’adolescenza non sembra più una malattia ma una sfida avvincente, i suoi “sintomi” non una spiacevole presenza ma uno stimolo al miglioramento e il suo tempo non un tempo morto e sospeso, ma un tempo della ricerca e della progettazione del Sé.

Grazie, ci penso un po’ su” mi ha detto Giada alla fine del colloquio.

Ti sfidano apertamente, ti mettono in discussione e poi, sorprendentemente, ti ringraziano. Il valore pedagogico della crescita e dell’educazione sta proprio in questa delicata, fragile e giusta distanza: adulti non troppo lontani da far sentire gli adolescenti soli, inadeguati e un po’ strani, ma nemmeno troppo vicini da farli sentire dipendenti e incapaci. Un equilibrio instabile che deve essere insieme cercato, pattuito e negoziato.

Gli adolescenti dovrebbero infatti essere osservati come quadri preziosi in un museo: non troppo vicino da tralasciarne la figura d’insieme, non troppo lontano da perdere di vista i dettagli che rendono ognuno di loro unico e irripetibile. In entrambi i casi ne perderemmo la vera bellezza e il vero valore.

BIBLIOGRAFIA:

 

 

 

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