Preferire il curarsi al guarire? E’ possibile?

Il titolo che ho voluto dare a questa mia riflessione potrebbe risultare bizzarro o, addirittura, irrispettoso per chi rispetta il tabù secondo il quale chi soffre di una patologia o di una sofferenza psicologica di qualche genere non possa più esprimere istanze psichiche perverse.

In realtà il fine del mio ragionamento è quello di tentare di far luce su alcuni aspetti molto specifici, ma non così infrequenti, che caratterizzano i significati profondi e contemporanei dei processi di cura e guarigione.

Partirei dalla constatazione che la nostra è forse la prima epoca storica nella quale, a livello di massa, si assiste al curioso fenomeno della “cura delle persone sane” da parte di figure pseudoprofessionali molto varie. Le angosce di perdita dell’uomo moderno (della performance, della bellezza, della giovinezza, della produttività) vengono a mio parere esorcizzate con l’utilizzo pseudoterapeutico di sostanze definibili come “curative”, infatti la crescita della spesa per farmaci inutili, integratori, rimedi naturopatici, omeopatici è un dato assolutamente rilevante ed inconfutabile.

Lo status di “malato” viene ricercato e sostenuto da un continuo processo di cura o meglio di pseudo-cura vista l’assenza, molto frequentemente, di una patologia vera e propria.

Stanno emergendo infatti le cosiddette pseudopatologie: intolleranze, sindrome da fatica cronica, strani disturbi della sfera sessuale, misteriose algie, sindromi pseudo-influenzali, bizzarri disordini gastrointestinali e chi più ne ha più ne metta. Anche condizioni assolutamente fisiologiche, come ad esempio la gravidanza, vengono sempre più investite di angosce e di significati pericolosi, negativi e distorti.

Sul versante psichico avviene il medesimo fenomeno di patologizzazione della normalità. L’esempio più lampante è l’abuso del termine medico “depressione” che ha completamente sostituito la parola”tristezza”. Nessuno è più triste ma siamo tutti depressi. Lasciatemi dire che la sfumatura di significato è notevole: la tristezza è una risposta comprensibile ad una condizione esistenziale reale, mentre la depressione è una patologia che necessita di cure mediche.

Un continuo ed interminabile processo di cura, senza guarigione, può essere sostenuto da molteplici motivazioni profonde e, spesso, inconsapevoli. Possiamo avere la cura come alibi allo stallo esistenziale, la cura come tentativo di manipolazione degli altri, la cura come richiesta di relazione e di aiuto, la cura come soddisfacimento di altrui bisogni (ad esempio quelli dei famigliari).

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Sull’altro versante bisogna poi affrontare la spinosa questione del perchè molte persone non vogliano raggiungere lo status di “sani”.

Questo a mio parere è l’aspetto nodale della questione.

L’essere sani, in generale, coincide con la possibilità di muoversi liberamente nel mondo e di agire la nostra libertà. Il desiderio di esser liberi ha scatenato guerre, generato letteratura e poesia e sembrerebbe dimorare nel cuore di ogni essere umano. Ma così non è, come Freud aveva abilmente intuito.

Nonostante la libertà venga perseguita, a parole, da ogni essere umano, essa in realtà rappresenta per molti un fardello dal quale liberarsi per rientrare in una dimensione regressiva di dipendenza e di contenimento delle pulsioni. Lo status di malato asseconda quindi questa sorprendente ambivalenza che tutti noi abbiamo verso la libertà che in apparenza desideriamo fortemente ma che, in definitiva, temiamo poichè ci lascia soli e nudi davanti alla consapevolezza di quanto poco sappiamo stare nel mondo.

Possiamo dire che l’esser sani, o meglio il sentirsi tali e mostrarlo agli altri, è una condizione che possono permettersi di vivere solo le persone coraggiose.

In https://www.valeriorosso.com/2016/04/01/preferire-la-cura-alla-guarigione/

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