**Dott.ssa Denise Erbuto- Psicologo, Servizio per la Prevenzione del Suicidio, Azienda Ospedaliera Sant’Andrea, Sapienza
Università di Roma

 

Essere un corpo (Leib) e avere un corpo (Körper) s’impone, nell’ambito delle psicoterapie corporee, come questione prioritaria per riflettere sul significato dell’esserci.
In queste pagine, l’esperienza della corporeità, grazie al contributo di vari autori, verrà
presentata entro i due poli del corpo-vissuto (Leib) e corpo anatomico (Körper). In ogni
esistenza, anche quando sembra prevalere una polarità, come nel vissuto schizofrenico, non si assiste mai alla scomparsa di una sull’altra, permanendo una relazione dialettica
inscindibile simile al rapporto figura-sfondo.
Nella pratica clinica, ri-pensare al corpo come soggetto e oggetto nel medesimo tempo
diviene possibile vettore di esplorazione di esistenze troppo spesso disancorate dalla
spontaneità dell’esserci e dalla totalità della corporeità vissuta.

Parole chiave: corporeità, Leib, Körper, oggetto, soggetto, schizofrenia, avere, essere, corpo.

 

Prologo

Il contatto con il mio corpo, nel dipanarsi del tempo, il muovermi quotidiano, il processo di acquisizione di conoscenza di me stessa, l’apprendere ad essere, semplicemente, lo stare a con-tatto con quanti finiscono per essere la loro malattia mentale perdendo ogni confine tra l’essere malato e l’avere una malattia, mi hanno portato a domandarmi: Come mi riconosco nell’essere corpo? Quali esperienze e quali vissuti accompagnano affermazioni come “io ho un corpo”, “io sono un corpo”? E ancora: Si pone una distanza tra me e il mio corpo nel momento in cui parlo del corpo come corpo che è mio?

È dall’esigenza di avvicinarmi a delle risposte, che nasce questo lavoro.

 

La dialettica tra Io e me

Parlare di corpo implica, necessariamente, riferirsi sia al divenire e riconoscersi come

persona, sia alla dialettica interna tra l’Io – freudianamente definito come entità corporea – e il “me”, tra l’essere e avere un corpo.

Sono i nostri corpi o, più precisamente, le nostre sensazioni cutanee a costituire i poli della dialettica del Sé-come-soggetto e me-come-oggetto.

Il corpo, o per meglio dire la corporeità – come «maniera con cui la presenza si progetta corporalmente» nella definizione di Cargnello (1996), ovvero il corpo vissuto, quello che io sento, come io lo sento, è il fondamento della nostra soggettività e, dunque, anche della costruzione identitaria.

La corporeità diviene in altre parole luogo della presenza, dove non esistono più psiche, soma, mondo-io e altri come entità distinte. La corporeità non è una qualificazione del soggetto, ma è il soggetto stesso.

Secondo una considerazione più generale se il corpo è una mia proprietà, dirò che “io ho un corpo” e non che “io sono il mio corpo”.

Tuttavia, come apprendiamo da Kant (1924) è possibile ricondurre questo avere del corpo da parte del soggetto all’essere del corpo stesso come soggetto: “L’uomo non può disporre di se stesso, poiché ciò sarebbe contraddittorio. Nella misura, infatti, in cui è una persona, egli è soggetto, cui può spettare la proprietà di altre cose. Se invece fosse una proprietà di se stesso, egli sarebbe una cosa, di cui potrebbe rivendicare il possesso. Ora, però, egli è una persona che differisce da una proprietà; perciò egli non è una cosa, di cui possa rivendicare il possesso, perché è impossibile essere insieme una cosa e una persona, facendo coincidere il proprietario con la proprietà. In base a ciò l’uomo non può disporre di se stesso. Non gli è consentito vendere un dente o un’altra parte di se stesso”.

Leib e Körper

Avere un corpo, essere un corpo rimandano a distinzioni fondamentali che necessitano di uno spazio di definizione e chiarificazione.

Il primo e assai noto chiarimento preliminare va fatto tra “corpo-vissuto, mondanizzato (Leib) e corpo anatomico o compagine somatica (Körper).

Nel fare questa distinzione, non si tratta, tuttavia, di contrapporre due diverse istanze, rischiando di cadere nell’errore cartesiano, bensì di descrivere due diverse “epifanie della corporeità” (Calvi,2005).

 

Il Körper è la specificazione estrema della tendenza a obbiettivare il corpo in quanto “cosa”, una tale obbiettivazione si rende possibile riguardo al corpo degli altri (ad esempio, si consideri l’operare del chirurgo o dell’anatomico), specie tralasciando ogni rimando significativo personologico.

Nell’esperienza del proprio corpo, anche nelle forme estreme della depersonalizzazione somato-psichica o del delirio di influenzamento somatico, questa polarità non è compiutamente raggiunta.

Invece, ci si dibatte costantemente tra i poli dell’avere un corpo e dell’essere un corpo, secondo l’accentuazione del momento riflessivo o di quello preriflessivo o «antepredicativo» (Callieri,1999).

Körper è il nome che Husserl utilizza per definire appunto il «corpo-oggetto» o il «corpo- rappresentazione»: il corpo che risponde a certe misure, che occupa un certo spazio, il corpo in quanto res extensa per dirla in termini cartesiani. Ma anche il mio stesso corpo, che esperisco quasi come un oggetto estraneo, anonimo, quando lo osservo allo specchio, quando lo tocco, come fosse il corpo di un altro.

Una simile definizione vale per qualsiasi corpo; tanto per quelli umani quanto per quelli di altri esseri viventi, persino delle cose. Questa definizione non risponde alla peculiarità dell’esperienza del corpo che sono e per cui sono al mondo. È, infatti, il corpo vissuto secondo quest’esperienza che Husserl chiama Leib .

Si tratta del corpo-vivente, del corpo in quanto viene da me vissuto come proprio e non come mero oggetto, nella sua interezza e non relativamente alle singole parti. Quel corpo che “io sono”, piuttosto che semplicemente “io ho”, in quanto unità vissuta di percezione e movimento – movimento differente da quello delle cose, evidenzia Merleau-Ponty, perché loro sono mosse, mentre io mi muovo. In termini percettivi, un soggetto che sia solo facoltà di rivolgersi a se stesso nel pensiero non esiste. Esso presuppone un corpo: nel senso che esso deve, anzitutto, essere un corpo.

Il corpo vissuto nell’unità di percezione e movimento diviene, come afferma Husserl (1989), l’“organo” di cui dispongo per agire nel mondo percettivo. È evidente che tale agire nel mondo percettivo può esercitarsi anche sul mio corpo, puntualizza Husserl all’interno delle sue Meditazioni cartesiane : io posso percepire una mano per mezzo dell’altra, un mio occhio per mezzo della mano, etc.

In definitiva, io sono l’“organo”, ma anche l’oggetto di ciò che Husserl chiama “il mio fare e disfare”.

 

Se con la mano destra tocco la sinistra, ad esempio, ne faccio oggetto della mia percezione; ecco però che una parte di me, la mano destra, si sottrae all’oggettivazione, essendo soggettività che compie l’azione. La mano toccata, a sua volta, è anche qualcosa che mi tocca e non si lascia perciò oggettivare del tutto.

Il tatto assume un ruolo preminente nella auto-costituzione percettiva del corpo: permette al corpo di avere una percezione di se stesso diversa dalla percezione delle cose nello spazio. Il corpo è campo di localizzazione delle sensazioni, caratteristica, questa, che lo differenzia dalle cose.

In quanto vede e tocca il mondo, il mio corpo non può, quindi, essere né visto né toccato.

Esso non è mai un oggetto, non è mai completamente costituito, proprio perché è grazie ad esso che vi sono degli oggetti. Non è, quindi, un oggetto esterno qualsiasi.

«Se è vero dunque che io ho coscienza del mio corpo mediante il mondo, è anche vero, per la stessa ragione, che il mio corpo è il perno del mondo: io so che gli oggetti hanno svariate facce perché potrei farne il giro, e in questo senso ho coscienza del mondo per mezzo del mio corpo» (Merleau-Ponty, 1945).

Si comprende come la comunicazione sensoriale è ciò che consente l’esperienza di abitare il mondo, pensarlo con l’a priori della ragione. Il bambino impara a parlare per chiedere le cose di cui necessità, impara a camminare per raggiungere la madre e gli oggetti del suo mondo.

Nel fare ciò egli non traduce in atto le sue rappresentazioni mentali, guidato da un a-priori prodotto dalla coscienza, ma è sollecitato dai bisogni del proprio corpo e dagli oggetti del mondo che lo circondano.

Ad entrare in contatto con le cose non è la sua coscienza ma il suo corpo che manipola, afferra gli oggetti, non in maniera astratta, ma in base ai sensi e alle possibilità che il suo corpo gli concede.

«Sono, infatti, gli oggetti del mondo a indicare al corpo le sue possibilità, è il loro aspetto, la loro fisionomia ad allontanarlo o ad avvicinarlo, è il loro mistero ad attrarlo» (Galimberti, 1983).

Ciò equivale a dire che sono Leib sempre sul punto di rovesciarmi in Körper, sono corpo- vissuto sempre sul punto di rovesciarmi in oggetto-corpo.

Si può dire, con Satre (1943), che il mio corpo non è un corpo, uno dei tanti oggetti-corpo, esso è irriducibilmente e originariamente mio perché fa tutt’uno con il soggetto che io sono. Il mio corpo è intriso di soggettività, è corpo-soggetto, non è solo schema o qualcosa che iopossiedo. Di conseguenza, si annuncia una concezione di corpo-vivente che esprime, per così dire, l’incarnarsi della coscienza, il farsi corpo della coscienza.

 

Il Leib non si colloca più nel mondo alla stregua d’altri oggetti come una cosa tra le altre; il corpo non sta semplicemente collocato, posto nel mondo come un libro su uno scaffale, o una pianta in un giardino, piuttosto esso dispiega a sua volta un mondo, tessendo una rete di fili intenzionali (Merleau-Ponty, 1945).

L’esperienza del corpo-Leib si esprime, come descritto da Cargnello (1953), in alcune modalità espressive: “afferrante” – cioè l’io-corpo che afferra ogni altro da me dalla parte che mi è concesso di prendere, in senso fisico e traslato; “assumente” – che fa propria ogni ricchezza del mondo, impossessandosene con un’oralità concreta o anche solo metaforica; “mascherante” – che deliberatamente occulta il mio veridico essere; “portante” – che mi porta nel suo divenire, indipendentemente dal mio volere, ma senza destituirsi della sue meità; “gravante” – che mi pesa e mi intralcia nei miei progetti “mondani”, costringendomi a trascinarlo come soma.

Diversamente dal corpo-cosa, inoltre, il mio Leib è corpo vivente caratterizzato da una particolare “intenzionalità, in virtù della quale mi rapporto alle cose nei termini di un’apertura al mondo.

Mentre il Körper termina, si può dire, con la barriera cutanea, il Leib oltrepassa questi limiti per giungere in un mondo di significati in cui centrale è la dimensione dell’intersoggettività, come incontro di me con l’altro.

Il rapporto tra il soggetto e l’altro è, fra le tante, la principale espressione del rapporto tra Io e mondo: «Il mondo è inseparabile dal soggetto, ma da un soggetto il quale non è altro che progetto del mondo; il soggetto è inseparabile dal mondo, ma da un mondo che esso stesso progetta. Il soggetto è essere-al-mondo e il mondo resta soggettivo perché la sua trama e le sue articolazioni sono delineate dal movimento di trascendenza del soggetto» (Merleau-Ponty, 1945).

Il soggetto della mia riflessione non è l’intelletto puro ma quell’intelletto “incorporato” che abita la dimensione spazio-temporale del corpo e che interviene nel mondo non come “io penso”, ma come “io sposto”, “io tocco”, “io sollevo” le cose del mondo (Merleau-Ponty, 1945). Il gesto corporeo diviene, così, vettore di senso e d’apertura interazionale: é attraverso la comunicazione sensoriale che l’Io corporeo partecipa direttamente a qualunque aspetto della vita del mondo.

Lo stesso Husserl (1936) rileva come il corpo costituisca insieme materia e campo di localizzazione delle sensazioni: «Il corpo proprio si costituisce dunque originariamente in un duplice modo: da un lato è cosa fisica, materia, ha una sua estensione, in cui rientrano le sue qualità reali, il colore, il liscio, la durezza, il suo calore e le altre analoghe qualità materiali; dall’altro lato, io trovo su di esso e ho la sensazioni “su” di esso e “in” esso: il calore sul dorso della mano, il freddo nei piedi, le sensazioni di contatto nelle punte delle dita» (Husserl, 1936).

Sul concetto di corporeità

Tra questo intelletto e il mondo non c’è distanza così come tra soggetto e oggetto, ma c’è un’originaria correlazione che trova nel corpo il suo luogo precipuo, corpo senza il quale non c’è intelletto né anima che possa intendere qualcosa del mondo (Galimberti,1983). Il corpo-Körper, dice Borgna, «si lascia indagare, misurare, sezionare senza che si tenga presente la sua storicità (la sua storia). Non è così se si considera il corpo come corpo-Leib .

Non posso percepirlo senza non percepire-insieme la sua storia. Nel Leib sono segnate le esperienze, le sofferenze, le angosce, le gioie e le possibilità della condizione umana (dell’uomo sano o malato)». Sono un corpo, ho un corpo sono conoscenze immediate, che non trovano riferimento in una figura statica e fissa, al contrario sono configurazioni spaziali e temporali mutevoli, esitanti in un “io” che è sempre lo stesso: sono-ho il mio corpo con i miei schemi corporei, nei quali mi riconosco. Questa struttura cangiante, ma che rimane invariabile, è stata bene espressa da Schilder (1996) come Gestalt, che conserva il suo senso rappresentativo, non solo nel far vedere, ma ancora nel presentare e preservare la forma, l’unità in ogni cambiamento e dislocazione. Il nostro corpo oscilla fra due diverse declinazioni del vissuto, pur senza mai essere del tutto l’uno o l’altra: il corpo oggetto,“che ho” (Körper), ed il corpo soggetto, “che sono” (Leib). In questa capacità mentale di muoversi avanti e indietro e mantenere una fluida tensione tra il vivere se stessi come dei soggetti e di riflettere su se stessi come oggetti, risiede ciò che Aron (1996) definisce la capacità autoriflessiva.

La soggettivazione del corpo rappresenta il processo del sentire se stesso naturalmente: il corpo è esperito come nucleo stesso dell’essere. Pur esplicitandosi secondo varie prospettive, questo corpo, nella sua “essenza” rimane unico e invariante: in psicologia e psicopatologia non potrà mai esistere un corpo che sia del tutto “oggetto” o del tutto “soggetto” (Ballerini, 2008).

«Sono cosciente del mio corpo come della mia esistenza, e contemporaneamente lo vedo con gli occhi e lo tocco con le mie mani (…). Esso è un oggetto per me, ed io sono questo corpo stesso. Sono due cose differenti: come mi sento come corpo e come mi percepisco come oggetto: ma ambedue le cose sono collegate in modo indissolubile», annotava Jaspers (1964).

 

E’ lo stesso Husserl (1988) a mettere in guardia contro i rischi della oggettivazione del corpo o di una sua parte: «Tra i corpi di questa natura – scrive – trovo il mio corpo nella sua peculiarità unica, cioè come unico a non essere mero corpo fisico ma corpo vivente. Questo corpo intero è la sola ed unica cosa in cui io direttamente governo e impero».

Ancora a proposito dei rischi dell’oggettivazione del corpo Binswanger scrive che «l’obiettivazione porta alla contrapposizione tra psichico e fisico; mentre noi vogliamo piuttosto “scavare un tunnel” al di sotto di questa contrapposizione».

Nel tentativo di stabilire un ponte fra coscienza dell’oggetto e coscienza del corpo quali elementi di una correlazione indissolubile, lo stesso Merleau-Ponty, il cui pensiero rappresenta un punto di riferimento d’estrema importanza per chiunque si occupi di corporeità non può sottrarsi, asserisce che «noi abbiamo riappreso a sentire il nostro corpo (…) perché esso è sempre con noi e noi siamo corpo», rinviando alla capacità di esperire il proprio corpo come soggetto e oggetto nel medesimo tempo, come una struttura dialettica che è il nostro trascorrere, la nostra storia (Callieri,1999).

Ulteriori intuizioni a proposito della questione della corporeità provengono da Binswanger (1936). Secondo lo psichiatra svizzero è necessario tener presente non solo che l’uomo possiede un corpo dotato di determinate caratteristiche fisiologiche, ma che ogni uomo è primariamente il suo corpo e che quest’ultimo non costituisce un suo attributo né una dotazione di cui possa disporre come si fa con un qualsiasi oggetto.

Nel soggetto sano, dunque, le due dimensioni coincidono; “l’esistere è vivere questa coincidenza, è abolire ogni distanza tra l’Io, il corpo e la presenza che dischiude un mondo” (Galimberti, 1983). Nella coincidenza di Leib e Körper – scrive Binswanger (1936)- “corpo e psiche fanno uno”.

Il vissuto del corpo nella schizofrenia 

È soprattutto nell’ambito della patologia che la corporeità può assumere diverse sembianze: “Bisogna domandarsi in primo luogo come un ammalato viva nel suo corpo o meglio come egli vitalmente sperimenti e “senta” il proprio corpo. Ma, per quanto riguarda questo “sentire”, non si deve pensare a percezioni riferite a questo o a quel senso, a questo o a quell’organo; soprattutto non si deve pensare a percezioni ottiche o tattili (cioè “esterne”) del proprio corpo (…) Bisogna sempre tener presente che non soltanto l’uomo “possiede” un corpo, che non basta sapere come è fatto questo corpo, ma che egli è sempre, in qualche maniera, corpo” (Binswanger,1936).

 

Molta parte della patologia può, dunque, risiedere nell’incapacità a mantenere la tensione dinamica tra le due prospettive dell’essere – avere un corpo.

Il Sé, quando è immerso in uno stato di consapevolezza soggettiva, è esperito come l’agente, «come centro di iniziativa e ricettacolo di impressioni» (Kohut,1977). Questo può portare ad una sensazione d’onnipotenza oltre che all’incapacità di sperimentare il Sé come un oggetto tra altri oggetti.

Al contrario, quando la persona è immersa in uno stato di coscienza d’autoconsapevolezza oggettiva, finisce per vedere se stesso solo come un oggetto tra altri oggetti, perdendo il senso di vitalità derivante dal’essere un soggetto, centro distinto di pensieri, sentimenti e azioni.

Nell’esistere patologico, nella presenza patologica – il Dasein per i fenomenologi – non ci si muove fra i due poli dell’essere un soggetto agente e dell’avere un corpo, ma solo attraverso una polarità; l’interazione tra Leib e Körper assume sembianze diverse, fino al decadere di ogni possibile distinzione tra i due.

Da questa “fusione” si assiste al prevalere ora del Leib che investe il corpo di vissuti depressivi, di colpa o di rovina, ora del Körper che sovrasta l’esistenza come nel caso dei deliri, in una successione spazio-temporale disgiunta.

Nella patologia, il corpo non è più vissuto come il nucleo del proprio essere, ma come un oggetto da osservare e da riconquistare.

Nella tensione dialettica fra i due poli dell’essere-corpo e dell’avere-un-corpo, si assiste, nella patologia, a un prevalente irrigidimento verso il polo dell’avere, fino al sentimento di espropriazione del proprio corpo, divenuto preda o bersaglio.

Altre volte, invece, il corpo non riesce più a riconoscere i suoi stessi confini e il contatto con la realtà circostante costituisce un evento di alienazione.

È quanto accade nella schizofrenia, in cui il corpo vivente, il Leib , scade a livello degli oggetti che lo circondano e con essi arriva anche a identificarsi o confondersi.

Quando il corpo, mediatore della relazione con il mondo, non è più vissuto come una soggettività (Leib), ma distanziato da me, è oggettivato alla dimensione di corpo anatomico (Körper), il ritrarsi dal corpo diviene ritiro dal mondo.

Rappresentativo, del totale annullamento dell’essere-corpo, è il bozzetto dello schizofrenico che si guarda le mani vuote ed incapaci, nell’indecisione sul fare e non fare, rimane fermo e bloccato (Callieri,1999).

La tematica corporea nel soggetto psicotico emerge in diversi sintomi, come nel caso della depersonalizzazione. Questo fenomeno, comunemente riscontro nelle diverse tipologie schizofreniche, si caratterizza per un sentimento d’estraneità, che di volta in volta può dirigersi verso il mondo esterno (allo-psichica), l’Io somatico (somato-psichica), o l’Io psichico (auto-psichica).

Il depersonalizzato perde la capacità di sentire il corpo come appartenente a sé; è come se vi fosse una frattura tra la corporeità vissuta e l’accettazione della sua obbiettività.

In una realtà dove il Körper si fa estraneo ad un Io spettatore angosciato e attento, divenendo un oggetto alieno, minaccioso, appare giustificato un sentimento di perplessità per il proprio corpo di fronte al quale non si può che interrogarsi e cercare spiegazioni plausibili.

Anche nel soggetto sano, per il quale il corpo – come afferma Sarte (1958)- «non è più proprio, ma passa sotto silenzio, nel suo farsi quotidiano e nei rapporti con gli altri», il corpo può, in alcune circostanze, emergere dal silenzio della quotidianità, facendosi massicciamente presente (Callieri,2001). Molte ne divengono, allora, le modulazioni: «la coscienza dell’esistenza del corpo, normalmente uno sfondo inosservato dalla coscienza che non disturba né si anima, ma è indifferente, può subire in toto modificazioni straordinarie; nello stato di orgasmo, nello stato di ansia, nel superamento del dolore, il corpo viene scosso fino alle sue ultime fibre» (Jaspers,1913).

Il corpo si rivela “positivamente” in una vasta gamma di situazioni: nello sdraiarsi a fine giornata dopo un faticoso lavoro, nel dissetarsi dopo una lunga camminata, nell’atto sessuale, nel gesto sportivo … In queste circostanze, come in tante altre, io sono in toto il mio corpo e il corpo diviene totalmente io (“je n’est un autre” – Lacan,1966). Qui il corpo non è soltanto presente, ma in lui io mi attuo e mi realizzo completamente ottenendo un senso di pienezza e completezza.

In situazioni d’emergenza, improvvise seppur abituali (mal di testa, pruriti, bruciori, ferite), il corpo si fa ostacolo e viene esperito come limite al proporsi nel mondo. Tuttavia, diversamente da quanto avviene nei fenomeni d’aberrazione psichica, qui siamo di fronte a fisiologici stati transitori, giocati nella dialettica tra il polo dell’”avere-un-corpo” e dell’”essere-corpo”; stati contrapposti ma armonicamente compenetranti.

Quando il proprio corpo diventa oggetto tra gli oggetti che l’io interiore dello schizofrenico finisce per osservare con indifferenza come parte che non gli appartiene.

Accade, allora, che lo sguardo che l’altro gli rivolge diventa ambiguo. Secondo Laing (1969) nessuno si sente più vulnerabile ed esposto allo sguardo di un’altra persona più dello schizofrenico.

Si può dire che mai, come in questi vissuti, l’esposizione al mondo degli sguardi altrui è letteralmente una “expeausition”, per dirla con Jean-Luc Nancy (1992), filosofo francese che ha coniato questa parola in cui compare appunto la parola “pelle” (peau), a indicare quanto l’esposizione coinvolga interamente l’individuo.

Si assiste, a partire da questo distanziamento tra corpo soggetto-oggetto, alla decorporeizzazione dell’Io, che non riesce più a partecipare alla realtà della vita, ma solo alle allucinazioni di un mondo fantastico, abitato da voci senza corpi e da immagini senza materia (Galimberti,1983).

Secondo l’analisi bioenergetica (Lowen,2004) la depersonalizzazione dello schizofrenico si differenzia in modo pieno dalle forme di depersonalizzazione riscontrabili in altri quadri sindromici.

Nella schizofrenia è centrale la disorganizzazione dell’Io, mentre nella reazione isterica l’Io conserva la sua struttura come nucleo coordinante:«nell’isteria la parte del corpo scissa dalla consapevolezza è rosata, riscaldata dal sangue a testimonianza dell’investimento libidico in atto, mentre nella reazione schizofrenica la parte scissa è bianca, livida, fredda, scissa, isolata dal resto del corpo» (Reich,1973).

Allo stesso modo, nel carattere schizoide un filo sottile mantiene l’unità corpo-mente, mentre nella depersonalizzazione schizofrenica la rottura con la realtà corporea appare totale.

Lo schizoide vive il proprio corpo come una dimora del proprio Sé sensibile e pensante.

Secondo Lowen (2004), l’analisi del carattere entro una prospettiva bioenergetica evidenzia nella schizofrenia la mancanza d’unità corporea: i vari segmenti del corpo sono scissi l’uno dall’altro come si manifesta nella separazione della testa dal corpo, nella scissione del corpo in due parti all’altezza del diaframma, nella divisione del tronco dal bacino, e nella dissociazione delle estremità.

Le braccia si muovono su un corpo rigido e non partecipe, ricordando le pale di un mulino a vento, le giunture sono fisse o immobili, particolarmente a livello del bacino e delle caviglie, le articolazioni appaiono come congelate, i muscoli delle gambe possono essere flosci o ipertrofizzati, i piedi invariabilmente deboli, a testimonianza della mancanza di contatto con il suolo.

Nei casi gravi di schizofrenia questa scissione della struttura corporea è chiaramente evidente nella figura e nell’immagine corporea, nel carattere schizoide, invece, essa appare solo come tendenza (Lowen, 2004).

Come suggerisce Laing (1969), l’Io, nell’organizzazione schizoide, è di solito più o meno incorporeo, viene cioè vissuto come un’entità mentale, immerso in quella condizione che Kierkegaard chiama “chiusura”.

 

Mentre il vissuto corporeo va in preda a questa profonda depersonalizzazione, il mondo interno viene invaso e, nello stesso tempo, ciò che appartiene al soggetto – sentimenti, percezioni – si colloca, con un vissuto di estraneità, nel mondo esterno.

«L’Io incorporeo, semplice osservatore di tutto ciò che il corpo fa, non si impegna direttamente in nulla. Le sue funzioni sono l’osservazione, il controllo e la critica di ciò che il corpo fa e sente» (Laing,1969).

Nello stato di oggettivazione del corpo, come nella schizofrenia, il proprio luogo, la propria casa e ancora prima il proprio corpo, non può più essere abitato poiché rimanda a uno spazio tombale, ovvero di pericolo e di morte.

Da questo vissuto estremo di perdita o lontananza dalla dimora familiare del proprio corpo l’individuo, come un’anima errante senza corpo, finisce per proiettarsi nell’universo cercando un nido, un nuovo rifugio, un luogo altro nel quale poter vivere. “L’espansione nello spazio, che nelle fasi catastrofiche può arrivare all’intero cosmo, si rallenta nel percorso schizofrenico in un peregrinare, alla ricerca di un luogo ove trasmigrare e porre un punto fisso, per ritentare una possibilità (Resnik,1986).

Un’esistenza al-limite: il caso di Luca

Nel corso di questi anni di formazione presso servizi psichiatrici ho assistito ad innumerevoli di questi viaggi verso la psicosi; situazioni di naufragio esistenziale, in cui a nave affondata, marinai e passeggeri si sono trovati ad abbandonare la nave e cercare un posto di salvezza.

Come il caso di Luca (nome inventato) ricoverato a causa di idee deliranti inerenti il corpo. In quest’esperienza di depersonalizzazione somato-psichica, Luca sente il proprio corpo, considerato alla stregua di un oggetto tra gli altri, non staccato da sé, ma, diverso, cambiato, seppur sempre di suo possesso. Egli sembra rifiutare tutto ciò che è, come lo specchio di una realtà estranea. Questo rifiuto totale del suo essere lo rende come un punto che svanisce nel nulla: Luca non può essere né reale, né sostanziale, non può avere né un’identità, né una personalità autentica.

Tutto ciò che egli è rientra in quello che possiamo chiamare, il sistema del Falso Sé. Questo sistema diviene il terreno fertile per l’insorgere di pensieri e timori paranoidi. Luca finisce per essere una presenza o persona estranea, dominato da un agente esterno, il suo stesso corpo, ostile e distruttivo.

Nel parlare di sé, Luca riferisce una perdita di simmetria del proprio corpo, riportata in seguito ad un esercizio fisico di allungamento, che lo avrebbe condotto, di lì a poco, alla morte.

 

Dominato da alcune allucinazioni somatiche, Luca sente la propria bocca ritrarsi, alcuni segmenti corporei spostarsi verso il basso, la carne e i muscoli sui glutei scomparire lasciando scoperte le anche; oltre a percepire la presenza di un liquido all’interno della testa che riduce il movimento a piccole oscillazioni laterali. Nell’osservarlo, continuativo è il contatto con alcune parti del corpo, sfregate, massaggiate, tastate, come a verificarne l’effettiva esistenza.

In casi come questi, come in molti altri, si assiste all’esperienza di un “io” come corporeità soggettiva, che non sa più trovare un “me” – come oggettivazione dell’esperienza corporea.

Un “io” che non cessa di esistere, pur essendo senza sostanza, senza corpo, senza nessun carattere di realtà, senza un “me” che lo accompagni.

Un “io” che si sente al sicuro solo se non è conosciuto, scoperto: è al sicuro dal pericolo di essere soffocato dall’amore, è al sicuro dalla distruzione dell’odio. Restando in incognito, il corpo può essere, allora, manipolato, deformato, curato: ma lui, l’osservatore, resta inviolabile.

Questo “io”, al tempo stesso, vuole essere compreso, nell’attesa che arrivi qualcuno capace di comprenderlo accettando interamente, lasciandolo libero di esprimere il suo essere. È necessario, tuttavia, avvicinarsi con gran cautela, lentamente, senza tentare, come suggerisce Binswanger, «di arrivare troppo presto».

A Luca e a quanti come lui si trovano a dover lottare contro e per un corpo che diviene estraneo, rivolgo queste parole di Lowen: «Io propongo che il senso di fallimento che possiamo sperimentare nel momento in cui il corpo ci “abbandona” venga trasformato in un senso di meraviglia per come un organismo talmente complesso riesca ad organizzarsi per comunicare, nella sua propria lingua, un qualcosa di vitale importanza per noi».

 

Bibliografia

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per approfondire:  https://iifab.org/images/CorpoNarrante/07_Erbuto.pdf

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