Perdersi nell’altro, perdersi in noi stessi, perdersi nelle paure, perdersi nel possedersi. Col risultato che l’amore prende a tratti il colore dell’odio, la vicinanza si alterna alla necessità di distanza e gli amanti oscillano in continuazione, come lancette di un orologio, nel tentativo di trovare una giusta media tra i poli costitutivi del loro legame.

Questa stessa ambivalenza, deformata e disumanizzata, attraversa anche la relazione che le pazienti affette da disordini alimentari instaurano nei confronti della loro patologia. Uso volontariamente, e non a caso, la parola relazione, perché proprio di questo si tratta: un’oscillazione fra amore ed odio, tra fusione e necessità di distruzione. A tratti il disordine alimentare sembra invadere la vita delle pazienti, rubandone spazio e soffocando il senso.

Nasce allora l’esigenza impellente di scrollarselo di dosso, di mettere distanza, di liberarsene, affermando una propria identità al di là di esso. Più spesso però il sintomo alimentare non assume la faccia della malattia, bensì quella della medicina: ciò che permette di stare bene, una coccola, una mano amica. Tanto vicina a sé da diventare addirittura una parte di sé, un pezzo della propria identità.

Così, in una fase di amore fusionale con la sua patologia, una paziente anoressica parla alla sua anoressia: “Mi chiudi gli occhi quando non voglio sapere, mi stordisci quando non voglio sentire (…) Mi mantieni sicura, al sicuro dal male del mondo” (Arkell & Robinson, 2008).

Come afferma il Professor Massimo Recalcati (1997), infatti, esiste una fase della patologia alimentare, un primo tempo logico, che può essere denominato come fase di luna di miele con lo specchio. E’ il momento in cui l’ideale della magrezza e dell’autosufficienza riescono a domare la pulsione della fame.

Il valore estetico diventa allora prescrizione morale e il controllo assoluto delle pulsioni porta ad una sorta di euforia, di estasi, nella declassazione proprio corpo. Nel farsi magra l’anoressica si sente forte, completa, una vincitrice, un’asceta, che ha raggiunto il nirvana, che non ha bisogno di niente. In questa prima fase, l’esaltazione del controllo, e la soddisfazione per la propria forza di volontà, sfiorano i connotati di un delirio di onnipotenza.

Segue però un secondo tempo logico della patologia alimentare in cui questo delirio di onnipotenza crolla. La pulsione della fame si risveglia, cieca e divoratrice, una fame da bue, per l’appunto: questo è il significato letterale del termine bulimia. Cade l’illusione anoressica del controllo assoluto e vi è un ribaltamento di quel dominio tanto caro che era stato instaurato sul proprio corpo. Il rapporto delle pazienti con la patologia allora si incrina, si crepa, e comincia a emergere l’ambivalenza nei confronti del sintomo.

La patologia sembra prendere dunque la consistenza fisica di una persona esterna, che rimane costantemente lì, presente, a braccetto; che è parte delle pazienti stesse, familiare, amica, eppure irrimediabilmente anche estranea, incomprensibile, nemica. E’ insieme dentro e fuori, mamma e aguzzino.

“Ti arrabbi quando te lo dico e rispondi vendicandoti. Quando vorrei piangere perché devo veramente farlo, quando cerco di scrivere e vorrei veramente farlo. Mi impedisci di credere, lasciandomi sospesa a metà frase” (Arkell & Robinson, 2008). Con quest’altre parole una seconda paziente parla al proprio disordine alimentare, non più un alleato, bensì una prigione.

E ancora un’altra paziente afferma: “All’inizio l’anoressia controllava solo il cibo ma col passare degli anni si è infiltrata in ogni aspetto della mia vita  portandomela via pezzo per pezzo. Fondamentalmente, sono passata da avere una vita a non avere altro che Te nella vita (Arkell & Robinson, 2008). Ma non sono queste parole simili a quelle che si dicono gli amanti degli amori malati alla fine della loro storia? Non è forse in fondo lo stesso il meccanismo? Uno dei rischi più pericolosi dell’amore? Perdere i confini della propria identità fino a non sapere più dove cominci l’uno e finisca l’altro? Fino a fare dell’altro definizione della propria identità? Fino a fondersi e così perdersi?

Non a caso, le pazienti con disordini alimentari parlano spesso della loro patologia chiamandola con nomi propri: Ana, per riferirsi all’anoressia, e Mia, come nomignolo della bulimia. Si possono trovare diversi esempi di questo su internet, nei vari blog che molte pazienti usano per condividere i loro vissuti. In essi, Ana e Mia vengono descritte come delle amiche turbolente o, appunto, come degli amanti infedeli e incostanti. Un amore malato, che si altalena tra dipendenza e necessità di distanza, che vorrebbe essere chiuso, cancellato, eppure non ci si riesce.

Per permettere di abbandonare il sintomo è dunque necessario rompere questa ambivalenza, perdere quel pezzo di identità preso in prestito della patologia per poi ricostruirsi da capo. Ma, come per la fine di ogni relazione, non si tratta di un’operazione semplice, ma di un taglio doloroso e faticoso. Nel perdere l’aguzzino, si perde anche un’amica. Nel lasciare la prigione, si lascia anche un amante.

fonte: culturaemotiva.it

Riferimenti:

Arkell, J., & Robinson, P. (2008). A pilot case series using qualitative and quantitative methods: biological, psychological and social outcome in severe and enduring eating disorder (anorexia nervosa). International Journal of Eating Disorders41(7), 650-656.

Recalcati, M. (1997). L’ultima cena: anoressia e bulimia. Milano (IT): Bruno Mondadori Editore.

Recalcati M. (2014). Non è più come prima. Elogio del perdono nella vita amorosa. Milano (IT). Raffaele Cortina Editore