È un’emozione legata all’intelligenza, che in molte occasioni si può rivelare utilissima, e può addirittura salvarci. Anche in tempi di epidemia. Abbiamo chiesto alla professoressa Anna Oliverio Ferraris di parlarci della paura, e di come la stiamo vivendo ai tempi del coronavirus

di Valentina Gentile


Corse improbabili per afferrare l’ultimo treno, arrembaggio forsennato di mascherine e scorte di disinfettante per le mani. Contemporaneamente scene di parossistica normalità, con sciami di giovani e meno giovani che si riversano nelle strade e nei ritrovi pubblici. E Playstation che diventano, per diritto preteso, comprovate ragioni di necessità per spostarsi. Tutto rigorosamente in barba a misure cautelative e disposizioni. E soprattutto a scapito del senso civico e della responsabilità verso chi, come anziani e persone immuno-depresse, rischia di più.

È la paura ai tempi del coronavirus. In Italia, ma forse nel mondo intero, se si pensa che in Francia, secondo Paese d’Europa colpito dal virus dopo di noi, 3.500 persone vestite da puffi si sono recentemente radunate in piazza per “sfidare il virus”


La professoressa Anna Oliverio Ferraris, psicologa, psicoterapeuta e ordinaria di Psicologia dello sviluppo all’Università La Sapienza di Roma.
La paura, persino quella odierna per un’epidemia, qualcosa di sconvolgente e impensabile fino a poco tempo fa, sembra avere due facce. Da un lato l’isteria, dall’altro la strafottenza e la negazione del pericolo. E sono due facce della stessa difficoltà ad affrontare con serietà e razionalità la realtà. Perché la paura è un’emozione legata all’intelligenza, e alla capacità di cercare una soluzione davanti ai pericoli.

Ce lo spiega la professoressa Anna Oliverio Ferraris, psicologa, psicoterapeuta e ordinaria di Psicologia dello sviluppo all’Università La Sapienza di Roma. La professoressa Ferraris è autrice di numerosi libri, tra cui Psicologia della Paura (Bollati Boringhieri, 2013) e Più forti delle avversità. Individui e organizzazioni resilienti (Bollati Boringhieri, 2014), scritto insieme ad Alberto Oliverio.


Dottoressa Ferraris, con l’epidemia da COVID-19 sembra di essere arrivati nell’epicentro della paura, dopo anni già segnati da terrorismo, crisi economica e ambientale. Che conseguenze ha tutto questo sulla nostra psiche?
L’epidemia sta modificando la nostra vita quotidiana, fatta di ritmi, di abitudini, di scadenze, di appuntamenti, di incontri di lavoro e con amici e conoscenti. Dobbiamo riadattarci a un nuovo stile di vita in tempi rapidi. I primi giorni può sembrare faticoso, quasi impossibile. Tutti quanti abbiamo però una certa capacità di adattamento ed è a quella che dobbiamo attingere pensando che non si tratta di un cambiamento definitivo ma temporaneo. Il fatto poi che anche gli altri devono adattarsi come noi dovrebbe rendere il cambiamento più semplice.

Sembrano esserci due facce della paura: da un lato reazioni ai limiti dell’isteria con corse, inutili, ad accaparrarsi mascherine e disinfettante per le mani. Dall’altro una strafottenza, l’ostinazione a negare il rischio, con persone che continuano ad affollare luoghi e ritrovi pubblici. Un esempio eclatante è stato la corsa ai treni in partenza da Milano. La paura irrazionale e la sua stessa negazione sono due facce della stessa medaglia?
La Paura è una emozione complessa che alcuni riescono a governare e altri no. Il fatto di non riuscire a governarla dipende da diversi fattori tra cui anche il tipo di formazione che si è ricevuta, dal senso di responsabilità personale, dai modelli che si sono trovati in famiglia e nella società. Non credo però che la fuga precipitosa da Milano e l’affollamento nei bar e nelle discoteche siano legati alla paura e non piuttosto alla convinzione di avere “diritto” a divertirsi come sempre. Non credo che sia indifferente il fatto che molti adolescenti e giovani adulti contemporanei si siano formati, fin dai primi anni di vita, di fronte a programmi televisivi e videogiochi di basso profilo. Il tronista, la velina, il porno divo, il cantante “trasgressivo”, ma anche l’eroe negativo che si impone agli altri con la brutalità e la violenza, non sono innocui se la loro presenza sugli schermi è quotidiana. Così come non è innocuo il bombardamento di pubblicità che induce desideri e falsi bisogni a partire dai primi anni di vita. La strafottenza di quei giovani è dovuta alla convinzione che il divertimento viene al primo posto nella loro vita e che non sono tenuti a sacrificarsi per il bene comune.

Sembra di trovarsi davanti ad atteggiamenti simili a quelli dei negazionisti climatici, o di chi non prova alcun interesse e nessuna responsabilità per l’ambiente, perché “non li riguarda in prima persona”. A cosa porta, interiormente, l’atteggiamento di negazione dei pericoli e della paura stessa? Non è un pericoloso corto circuito con la realtà?
Sono atteggiamenti, quelli dei negazionisti, dai novax a coloro che negano cambiamenti climatici, che rivelano la paura di dover confrontarsi con i problemi reali. Da un punto di vista psicologico la negazione è un meccanismo di difesa infantile, immaturo. Chi adotta questa strategia tende ad ignorare tutto ciò che lo disturba, che lo impaurisce o che mette in discussione le proprie convinzioni e il proprio stile di vita.

Abbiamo paura della paura?
La paura fa paura perché è contagiosa, si trasmette facilmente da una persona all’altra attraverso i movimenti, le mimiche, lo sguardo, il tono della voce. Può suscitare un forte stato emotivo che porta ad agire d’impulso, senza riflettere. Joseph Conrad lo spiega nel romanzo “Lord Jim”, quando scrive che Jim teme assai di più le reazioni di paura dei passeggeri che l’affondamento della nave. Per questo si mette in salvo su una scialuppa quando invece era suo dovere restare sulla nave. Quando qualcuno lancia l’allarme in un luogo affollato molti finiscono calpestati, cosa che non sarebbe accaduta se avessero mantenuto il controllo. Il caso di Corinaldo in discoteca ne è un esempio. Quello di Piazza San Carlo a Torino durante la proiezione di una partita di calcio è un altro. Ma ci sono stati molti altri casi del genere, purtroppo.

Guarda il video della Tragedia di Piazza San Carlo a Torino del 3 giugno 2017.

Eppure, come sottolinea anche nel suo libro “Psicologia della Paura”, la paura è un’emozione da cui avremmo molto da imparare. Come?
In realtà la paura ha la funzione di avvisarci di un pericolo, di una minaccia, e in questo senso è utile. È bene aver paura. Sotto l’effetto della paura ci attiviamo immediatamente e pensando velocemente andiamo alla ricerca di una soluzione. Se però la paura si cronicizza e diventa ansia finisce per creare uno stato e di allarme continuo che amplifica i nostri timori, anticipa esiti negativi e ci fa vedere i pericoli anche quando non ci sono. L’antidoto alla paura è la razionalità. La persona coraggiosa sa di avere paura ma riesce a tenere l’emozione sotto controllo. Il temerario invece non si rende conto del pericolo.

l filo conduttore di queste due facce della paura sembra essere una sorta di egoismo, individualismo. In troppi non riflettono sulla possibilità di divenire veicolo di contagio per gli altri, per chi è più debole: eppure in momenti come questo, non dovremmo essere più portati a proteggerci gli uni con gli altri?
Nel caso di epidemie come quella che stiamo attraversando, la paura dopo un primo momento di legittima agitazione e sconcerto dovrebbe lasciare il posto alle riflessione e alla solidarietà: si tratta di capire che proteggendo gli altri dal contagio proteggiamo anche noi stessi. Anche se può produrre forti emozioni, la paura non è dissociata dall’intelligenza.

Cosa rivela questo legame tra paura, egoismo e individualismo, in un momento storico così difficile?
La paura è un’emozione universale che può esprimersi in molti modi diversi, sia a livello individuale che collettivo. Nel caso dell’assalto ai treni molti hanno pensato di poter mettersi in salvo individualmente senza tener conto del contesto e delle caratteristiche dell’epidemia. Altri hanno addirittura ritenuto di non dover rinunciare ai propri divertimenti come sciare, frequentare bar, discoteche eccetera, anzi hanno rivendicato il diritto di farlo, nella convinzione che se continuavano a divertirsi come sempre la situazione sarebbe rimasta immutata. Anche questo è un meccanismo di difesa che rivela immaturità individuale e sociale. E a quei giovani che se ne infischiano degli anziani bisognerebbe ricordare che oggi sono molti i nonni che con la loro pensione, frutto del lavoro di una vita, contribuiscono alle finanze di figli e nipoti.

per saperne di più https://www.sapereambiente.it/protagonisti/lemozione-che-puo-salvarci-dialogo-sulla-paura-con-anna-oliverio-ferraris/

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