Stefania Lanaro
Quale può essere il senso del perdono?
Perché si può perdonare?
Il perdono, così connotato è un atto di religiosa bontà, io ti perdono perché la mia bontà è superiore alla tua trasgressione, io perdono, tu speri nel mio perdono e con questa contrattazione entrambi guadagniamo in vita serena. Il non perdonare inserito in questo discorso di bontà crea due fallimenti: il mio costantemente pensare alla tua “cattiveria” nei miei confronti e il tuo sentirti in-perdonabile, marchiato a vita dalla tua mancanza di correttezza.
Questo perdono è legato ad una relazione io /altro, a due posizioni opposte ma anche strettamente relate, a un dare e avere con un’unica direzionalità :tu hai leso me e io mi sento così leso da te che non ti concedo la mia comprensione e la mia azione liberatoria.
Perdonare equivale a liberare: dalla colpa, dal peccato, dal brutto per poter accedere alla libertà di sentirsi buoni.
Ma l’atto del perdonare è un atto liberatorio sempre? Perdonare a volte significa liberare e liberarsi ma solo nel momento in cui lo sento come una conclusione di un percorso, non come un stato, un fatto, un dovere ma quando è la conclusione di un processo di accettazione della colpa.
Pensavo alla difficoltà nell’accettare la colpa del perdonare, se concedo la liberazione al “peccatore” ho dimenticato il dolore?
Il dolore e il perdono come si correlano? Il dolore quale posto occupa nel processo del perdono?
Quali atti sono degni di essere perdonati?
Il percorso che prende forma dal dolore dell’atto subito incontra la rabbia, la vergogna e la sofferenza e insieme percorrono il percorso dell’esistenza, sono i colori di un viaggio che vanno colti nelle sfumature per poter raggiungere l’atto del perdonare.
Perché devo perdonare? Perdonare è una delle possibilità non il dovere, perdono se sento che dopo aver attraversato la sofferenza, posso sostare in una terra di mezzo in cui la rabbia lascia il posto al dolore e alla sofferenza, dove il dolore può essere vissuto, assaggiato ed evacuato, il dolore non viene sotterrato dal perdono, è la sua trasformazione. Posso perdonare perché ho conosciuto a fondo il dolore e proprio per questo comincia a starmi stretto. Perdono perché non perdono te ma concedo a me di cambiare strada.
E quando non devo perdonare te ma sono io l’oggetto del mio perdono?
Pensavo alla paura di non essere belli, di non essere perfetti ai propri occhi, la certezza di essere brutti e così peccatori da meritare il dolore.
Il peccatore interno è umano, fortemente umano, con il dolore concentrato nella propria umana persona. Sono “brutto”, non valgo il mio sguardo e lo sguardo dell’altro, sguardo in cui specchiandomi vedo la mia bruttura. Non sei tu che parli di me, sono io che vedo nel tuo sguardo le mie parole.
Per- dono. Guardarmi con gli occhi del rispetto potrebbe essere un dono ma io quel dono non lo merito perché non sono capace di essere bello e di brillante come vorrei.
Per – donarsi. A chi mi devo donare per sentirmi “bello”? quanto devo soffrire per essere bello?
Nella cultura occidentale il perdonarsi sembra incanalato sempre più spesso nel sintomo, il non mangiare, l’alcool, le sostanze, il sesso; tacere il percorso di sofferenza per non ascoltare il dolore e imporsi un cambio di lente: dire di sì all’anestesia dell’emozione per non dover soffrire, apparire ribelli per non ascoltare la propria tristezza.